Enrico Barsanti
Capitolo III
I terremoti sono fenomeni geologici strettamente dipendenti dalla natura delle rocce dei luoghi dove si generano e si propagano, sia per quanto riguarda l'energia da essi liberata, sia per gli effetti che producono in superficie.
Energia liberata
I terremoti più frequenti e disastrosi sono quelli di origine tettonica,
dovuti alla liberazione improvvisa dell'energia accumulatasi durante i lenti
movimenti delle masse rocciose sottoposte a sforzi tettonici.
Le rocce, sotto le spinte verticali (anche gravitazionali) ed orizzontali
tettoniche, se non possono scorrere lentamente ("Creep"), riescono a deformarsi
fino a un certo punto, quindi si rompono (zona focale), avendo una limitata
elasticità. Esse sono particolarmente vulnerabili nei punti di maggior
attrito e di confluenza delle spinte, là dove in passato si è
già creata una frattura (nelle faglie attive, generalmente non visibili
in superficie, e nei sistemi di pieghe), potendo "scivolare" tra i suoi lati
contrapposti e non rinsaldati. Questo è il motivo per cui i lenti
e continui spostamenti cui sono sottoposte le placche crostali dalle forze
geologiche non avvengono sempre gradualmente, ma anche attraverso repentini,
improvvisi e bruschi movimenti (Rimbalzo elastico).
La quantità di energia sismica che un terremoto può sprigionare
dipende dalla quantità di energia di deformazione che si accumula
in zona focale. Questa energia è soggetta essenzialmente a tre
fattori:
- La quantità delle masse rocciose condiziona l'accumularsi di
energia:
maggiore è il volume focale, maggiore è la capacità
di immagazzinare energia prima del momento di rottura.
- I tipi di minerali che costituiscono le rocce determinano la loro
elasticità (indicata dal modulo di incompressibilità e da quello
di rigidità) e la loro densità, condizionando il grado di
assorbimento delle forze.
- La conformazione delle rocce influisce sui tempi di rottura, sul grado
di assorbimento delle forze e anche sulla durata della scarica sismica.
L'energia accumulata si distribuisce tra le masse rocciose, aumentando il
loro stato di stress (stress focale). A parità di volume focale, l'aumento
di energia accumulata comporta l'aumento dello stato di stress. La liberazione
improvvisa di energia può avvenire dopo molto o poco tempo dall'inizio
dell'accumulo degli sforzi, e ciò, generalmente, determina la
quantità di energia prodotta dal terremoto.
In definitiva vale la seguente relazione fondamentale:
[3.1] Maggiori sono lo stress e il volume focali, maggiore è l'energia accumulata e, quindi, maggiore sarà, a parità di altre condizioni, la grandezza del terremoto al momento di rottura.
Effetti di superficie
La natura geologica delle rocce e la loro conformazione si presentano, dunque,
come parametri fondamentali (insieme alla quantità) nel rapporto tra
energia accumulata, da una parte, e stress e volume focali, dall'altra, con
le relative conseguenze sulla forza di un terremoto. Questi parametri permangono
come fondamentali anche nelle manifestazioni sismiche di superficie, perché
la forza distruttiva che un terremoto può manifestare non dipende
soltanto dall'energia che per esso si libera, ma anche dalla distanza della
zona focale (ipocentro) e dalla propagazione delle onde sismiche. Infatti,
l'energia liberatasi in zona focale si ripercuote sotto forma di vibrazioni
(onde sismiche) che si propagano attraverso la crosta terrestre. Questa è
un mezzo di propagazione, non omogeneo e anisotropo, composto di rocce diverse
che trasmettono in modo differenziato le vibrazioni e che reagiscono ad esse
secondo le proprie morfologie e costituzioni fisiche.
Le caratteristiche principali delle onde, cioè l'ampiezza, la lunghezza
e il periodo, oltre che dalla quantità di energia che si libera in
zona focale, dipendono, pertanto, anche dalla quantità e dalla
varietà delle rocce che attraversano.
Le onde sismiche, del resto, sono di più tipi e, a seconda che si
propaghino all'interno della litosfera (onde interne o di volume) o sulla
superficie della crosta (onde superficiali), assumono caratteristiche differenti,
con specifiche ripercussioni sullo scuotimento del suolo e sulla sua
accelerazione.
Per avere un'idea di quanto siano influenti il mezzo di propagazione e il
tipo di onda, si consideri, ad esempio che, tra le onde interne, quelle P
(Primarie, che avvengono per compressione e successiva dilatazione, con movimenti
che vanno nella stessa direzione della propagazione) possono attraversare
corpi fluidi, mentre le onde S (Secondarie, che avvengono per movimenti alterni
delle rocce e perpendicolari alla direzione della loro propagazione) non
si trasmettono attraverso i liquidi.
Le onde superficiali, tra cui ci sono quelle di Rayleigh (R, che avvengono
per movimenti sia di compressione e dilatazione che alterni) e le onde di
Love (L, che si propagano per soli movimenti alterni, un po' come le onde
S, ma su un piano orizzontale di superficie) presentano caratteristiche ancora
più complesse, dovute anche a fenomeni di rifrazione e riflessione,
e alla composizione di diversi tipi di onda. Va aggiunto, altresì,
che la velocità di propagazione è diversa per ogni tipo, risultando
massima nelle onde P. Ad esempio, nel granito la velocità delle onde
P è circa 5,5 km/sec, quella delle onde S è 3,0 km/sec; nell'acqua
la velocità delle onde P è circa 1,5 km/sec, mentre le onde
S non si propagano per tale mezzo, come già detto.
La velocità delle onde di Rayleigh è sempre minore di quella
delle onde S, mentre la velocità delle onde di Love è maggiore
di quella delle onde S negli strati più superficiali della crosta,
ma minore della stessa negli strati più bassi.
Di fatto, però, la velocità delle onde P, per la diversità
delle rocce in cui esse si propagano, può variare da circa 0,4 a 7,0
km/sec. Più in generale, la velocità di ogni tipo di onda sismica
varia secondo la densità e l'elasticità delle rocce attraversate.
Così, nonostante in un sismogramma si distingua quasi sempre molto
bene l'arrivo delle onde P e delle onde S, la differenza dei tempi di arrivo
di queste onde serve solo approssimativamente a determinare la distanza della
zona focale dal luogo di rilevamento.
La propagazione delle onde sismiche, dunque, risente del tipo e della
conformazione delle rocce attraversate e, in base alla natura geologica dei
luoghi raggiunti, esse si manifestano con maggiore o minore ampiezza e
accelerazione.
Valutazione della grandezza di un terremoto
Il fatto che la forza di un terremoto si manifesti in modo dipendente dalla
natura geologica dei luoghi attraversati dalle onde sismiche, rende più
complessa la determinazione del rapporto tra la quantità di energia
di deformazione accumulata in zona focale e la quantità di energia
sismica liberata da un terremoto. Ciò crea anche non pochi problemi
per la determinazione esatta della forza di un terremoto e degli effetti
che esso può provocare sulle abitazioni e le costruzioni in genere.
Mentre non vi è alcuna difficoltà a valutare quale sia il più
forte all'origine tra due terremoti aventi lo stesso ipocentro e registrati
con lo stesso strumento nella medesima stazione, sorgono problemi se i due
terremoti hanno ipocentri diversi o sono registrati in stazioni diverse.
Considerando, però, che in uno stesso luogo di rilevamento e per la
stessa zona focale non variano i tipi di roccia interessati dal sisma, è
possibile stabilire delle relazioni costanti tra i diversi terremoti che
si susseguono.
Charles Richter, sviluppando le idee del giapponese Wadati, nel tentativo
di elaborare una scala delle magnitudo dei terremoti per ovviare alle suddette
difficoltà, stabilì alcune convenzioni che dovevano essere
valide soltanto per la California meridionale, ma che in seguito vennero
adottate ovunque. Richter prese in considerazione l'ampiezza delle onde sismiche
così come si può misurare sulla base dello spostamento dell'indice
di un sismografo. Poiché tale ampiezza varia, in generale, a seconda
della distanza, rispetto all'epicentro, del luogo in cui è collocato
il sismografo, e dipende anche dalla componente misurata e dal tipo di strumento
usato, per evitare la raccolta di dati non confrontabili, stabilì
che il sismografo fosse sempre dello stesso tipo (a torsione Wood-Anderson,
o ad esso riconducibile) e che le misurazioni fossero paragonabili a quelle
rilevabili a 100 chilometri dall'epicentro. Si preoccupò in seguito
di stabilire una scala empirica di corrispondenza tra il rilevamento effettuato
a 100 chilometri di distanza e i rilevamenti che possono essere fatti a distanze
diverse. Richter prese in considerazione la massima ampiezza delle onde che
è possibile registrare localmente, indipendentemente dal tipo.
Successivamente furono elaborate scale per i vari tipi di onda, e molto spesso
vengono considerate quelle di tipo P che, risentendo meno della profondità
dell'ipocentro, possono dare una misura abbastanza oggettiva della forza
all'origine di un terremoto. La Scala Richter delle magnitudo è
logaritmica in base dieci, e a una magnitudo 1 equivale uno spostamento
dell'indice del sismografo di 10 micron (a 100 chilometri dall'epicentro).
Tra un valore intero e l'altro della Scala, dunque, l'ampiezza dello spostamento
dell'indice aumenta di dieci volte rispetto al valore precedente, e al nono
grado l'indice si dovrebbe spostare di un valore equivalente a ben 1000 metri.
Per questa grossa diversità tra gli spostamenti più lievi e
più violenti del suolo, corrispondenti ai valori più bassi
e più alti della scala, sono usati in pratica sismografi di tipi
differenti. Bisogna, comunque, tener conto che i sismografi amplificano di
qualche migliaia di volte i movimenti del suolo: i 1000 metri teorici di
spostamento dell'indice non corrispondono certo, e per fortuna, all'ampiezza
reale dell'onda sismica che, anche per i terremoti più disastrosi,
è appena dell'ordine di pochi centimetri in zona epicentrale.
Quindi, grazie ad alcuni accorgimenti e convenzioni, pur permanendo gravi
difficoltà interpretative dei dati, i sismologi riescono abbastanza
bene a determinare la magnitudo di un terremoto e a farsi un'idea della
quantità di energia sismica liberata. Esistono a questo riguardo ulteriori
criteri di valutazione della magnitudo (ad esempio quelli basati sul momento
sismico) e sono state azzardate relazioni tra essa e l'energia liberata.
Considerazioni sulla zona epicentrale
Non senza difficoltà è anche l'individuazione dell'epicentro,
sempre per i motivi legati ai diversi comportamenti che le onde sismiche
assumono attraversando differenti zone geologiche. Va notato comunque che,
ai fini della sismologia e anche della previsione, non ha molto senso parlare
di epicentro esatto di un terremoto, sia perché il luogo di rottura
non è mai un punto geometrico ma una zona piuttosto estesa, sia
perché l'area maggiormente interessata da un terremoto è tutta
quanta la zona epicentrale, che può estendersi, a seconda dei casi,
fino a un raggio di molte decine di chilometri. Inoltre, la determinazione
esatta dell'epicentro di un sisma è quasi impossibile, e le affermazioni
dei sismologi a questo riguardo sono soltanto indicative.
In passato si individuava l'epicentro nella località dove si rilevavano
i maggiori effetti di un sisma. Ciò era sostanzialmente sbagliato
perché, tranne i rari casi in cui l'ipocentro è molto poco
profondo (ad esempio in certi terremoti di crollo), gli effetti di superficie
non sono sufficientemente indicativi, per motivi geologici locali, di
densità di popolazione o di resistenza degli abitati. Tale modo rudemente
empirico di individuare l'epicentro è oggi ampiamente superato, così
come, e per le stesse ragioni, è superata la Scala Mercalli delle
intensità, anche se in alcune parti del mondo si continua ad utilizzare
per certe utilità che presenta. Ciò che conta veramente è
individuare la zona focale (ipocentro, in senso lato) e considerare a diversa
condizione di rischio le varie località sovrastanti (zona epicentrale).
È questo il compito del geologo, dell'ingegnere e del sociologo; molte
aree sismiche del mondo, infatti, sono state suddivise in zone a differente
rischio, anche se ugualmente interessate dall'attività della medesima
zona focale.
Nel 1845, Michael Faraday scoprì che le forze magnetiche riguardano non solo materiali ferrosi allo stato solido, ma tutta la materia nei suoi tre stati di aggregazione.
Magnetizzazione delle rocce
Sottoponendo una roccia qualsiasi a un campo magnetico, essa reagisce in
una qualche maniera a seconda della quantità, del tipo e della
distribuzione dei minerali che la compongono.
Immaginando una sostanza composta da tanti piccoli dipoli elementari,
magnetizzati spontaneamente in varie direzioni, il momento magnetico risultante
dipende dall'allineamento globale di tali dipoli. Essi, attraverso un campo
magnetico esterno, tendono a essere indirizzati verso un'unica direzione;
se tutti i dipoli riescono a disporsi nella stessa direzione e con lo stesso
verso, si dice che la sostanza ha raggiunto il suo "punto di saturazione".
Le sostanze si suddividono, sulla base della loro struttura atomica e sul
grado di saturazione raggiungibile in condizioni normali, nelle seguenti
cinque categorie:
Suscettività e permeabilità magnetiche
Il parametro fondamentale di magnetizzazione, cioè del momento magnetico
specifico, si chiama "suscettività". Tanto maggiore è questo
parametro, tanto maggiore è la magnetizzazione, a parità di
forza del campo magnetizzante.
La suscettività determina altresì il grado di permeabilità
µ di una sostanza, cioè la sua capacità di essere
attraversata dal magnetismo, e quindi di acquisire una magnetizzazione indotta.
Maggiore è la suscettività, maggiore è anche la
permeabilità.
Magnetizzazione residua e Piezomagnetismo
Le rocce, oltre a possedere una magnetizzazione indotta, dovuta al campo
terrestre, posseggono anche una magnetizzazione residua che, generalmente,
è quanto rimane di una magnetizzazione formatasi in epoche passate
e che può essere perfino superiore a quella indotta.
Questa forma di magnetizzazione è molto varia, per quanto riguarda
le sue origini, e si suole dividere in tanti tipi diversi, riguardanti ciascuno
una propria causa, che è generalmente da attribuirsi a fattori geologici,
come nella magnetizzazione termoresidua (TRM) delle rocce vulcaniche. In
questo caso, la magnetizzazione si è formata quando le rocce eruttive
si sono raffreddate e la loro temperatura è scesa sotto il punto critico
di Curie in presenza di un campo magnetizzante. Lo studio di questa forma
di magnetizzazione ha permesso di ottenere informazioni preziose sulla storia
geologica della Terra (Paleomagnetismo).
La variazione di orientamento dei dipoli elementari, sottoposti a un campo
magnetico, provoca delle variazioni significative nelle distanze interatomiche,
che portano ad aumenti o diminuzioni delle lunghezze e dei volumi dei singoli
cristalli componenti le sostanze. Questo fenomeno, noto da tempo e ampiamente
sfruttato nella generazione degli ultrasuoni, si chiama magnetostrizione.
In modo particolare è interessante in questa sede il fenomeno inverso,
per il quale una variazione di pressione di una sostanza provoca una variazione
della sua magnetizzazione. Ciò introduce una nuova forma di
magnetizzazione residua, per cui l'orientamento dei dipoli non si ottiene
solo con un campo esterno magnetizzante, ma anche con una forza meccanica
coercitiva (Piezomagnetizzazione residua - PRM).
In condizioni normali, la magnetizzazione è apprezzabile solo in alcune
rocce che contengono materiali ferrimagnetici, come la magnetite. Sottoponendo
però le rocce a variazioni di pressione, esse possono generare dei
campi magnetici apprezzabili (effetto piezomagnetico) a causa dell'azione
meccanica sui dipoli elementari o, in ogni modo, a causa dell'aumento della
suscettività in presenza di un campo magnetizzante come quello
geomagnetico. Nel primo caso, il campo magnetico generatosi sarebbe proprio,
mentre nel secondo caso sarebbe indotto.
Le osservazioni di Nagata (1970) e di Stacey & Banerjese (1974), riguardanti
gli effetti dello stress sulla suscettività magnetica delle rocce,
hanno evidenziato come la suscettività aumenti con l'aumentare dello
stress. La magnetizzazione diminuisce nella direzione di compressione, mentre
aumenta nella direzione perpendicolare a quella di compressione (Anisotropia
magnetica).
Tettonomagnetismo
È stato constatato empiricamente che esiste una corrispondenza tra
variazioni geomagnetiche e fenomeni di dilatanza delle rocce, osservabili
attraverso le misurazioni altimetriche del terreno, dovuti alle forze tettoniche.
Questo tipo di variazioni, che Nagata (1969) chiamò tettonomagnetiche,
è ampiamente indicativo della relazione esistente tra variazioni del
campo geomagnetico, effetto piezomagnetico e stress delle rocce.
Qualcuno (Stacey & Banerjese, 1974; Rikitake, 1976) ha riportato anche
delle relazioni, benché approssimative, tra la variazione
dell'intensità di magnetizzazione e lo stress a cui sono sottoposte
le rocce, in modo da poter calcolare la variazione del campo magnetico dovuta
all'effetto tettonomagnetico.
Sismomagnetismo
Il tettonomagnetismo è un insieme di fenomeni generali, causati dagli
effetti della pressione nella crosta terrestre, che non sono legati
necessariamente all'attività sismica. Essi comunque rientrano, il
più delle volte, in quei tipi di precursori a lenta evoluzione che
non sono utili ai fini di una previsione a breve termine dei terremoti. Due
cose ben diverse sono, infatti, lo stato di stress delle rocce sottoposte
alle forze geologiche che predispongono una situazione favorevole agli eventi
sismici, e che dà luogo ai fenomeni tettonomagnetici più generali,
e lo stato di stress quando questa situazione è matura e le rocce
si stanno per frantumare. In zona focale, prima della liberazione dell'energia
di deformazione, avviene qualche cosa di molto più intenso di una
semplice compressione di masse rocciose. Qui un'enorme quantità di
materia è sottoposta a sforzi e tensioni che determineranno molto
presto il suo momento di rottura, e avvengono trasformazioni dello stato
fisico delle rocce capaci di alterare sensibilmente la loro suscettività,
con conseguenze sulla magnetizzazione complessiva e, quindi, sul campo magnetico
terrestre. Presumibilmente, gli atomi che compongono le rocce focali subiscono
delle alterazioni del loro stato elettromagnetico, favorendo schemi di
saturazione, insoliti alle normali pressioni e temperature, e producendo
variazioni di magnetizzazione di maggior consistenza di quelle dovute al
più generale effetto tettonomagnetico.
Questa particolarità del tettonomagnetismo prende il nome di
sismomagnetismo e le variazioni del campo magnetico terrestre, dovute a tale
fenomeno, possono chiamarsi variazioni sismomagnetiche. Esse assumono un
ruolo decisivo per la previsione di un terremoto, costituendone in qualche
modo il suo spettro magnetico. Il loro ruolo è importante anche
perché l'aumento dello stato di stress in zona focale, prima del momento
di rottura che genera il terremoto, determina in modo necessario l'aumento
della magnetizzazione delle rocce e quindi campi magnetici sempre più
forti. Sono questi, che possono essere indotti oppure propri, a provocare
le anomalie geomagnetiche, che risultano rilevanti e temporanee nella zona
circostante.
Il fatto che molti terremoti abbiano ipocentri a profondità dove le
temperature superano quella di Curie potrebbe non impedire che le rocce in
zona focale producano ugualmente campi magnetici secondari. Invero l'aumento
di temperatura, man mano che si scende in profondità, è
accompagnato dall'aumento della pressione, e tale aumento provoca di certo
un innalzamento della temperatura di Curie. Inoltre le forze di compressione
riescono a vincere, entro certi limiti, i movimenti molecolari, dovuti alla
temperatura, e possono orientare in un'unica direzione i "dipoli elementari",
almeno per profondità in cui gli effetti dei terremoti sono apprezzabili.
Spostamenti dell'isoterma di Curie sono stati in effetti rilevati in concomitanza
di attività tettonica.
In accordo con la [3.1], si può, pertanto, formulare la seguente relazione tra caratteristiche focali e variazioni del campo geomagnetico:
[3.2] A parità di altre condizioni, maggiori sono lo stress e il volume focali, maggiori sono le variazioni sismomagnetiche che si vengono a determinare.