Enrico Barsanti
Il problema del significato è tanto vasto e complesso che è
impossibile affrontarlo, anche superficialmente, in poche pagine, senza perdere
il valore dell'importanza che esso ha avuto dai tempi dei Greci fino all'attuale
"crisi dei fondamenti", dove il linguaggio siede sul banco degli imputati
come maggior responsabile degli errori e delle antinomie logiche e matematiche.
In questo scritto verrà accennato al problema del significato solo
per quanto concerne i "nomi" e le "descrizioni", e ne verrà discusso
l'aspetto filosofico in merito all'importanza che ha in filosofia l'uso di
un linguaggio corretto e rigoroso.
Si consideri che, se due nomi sono sinonimi, possono venir sostituiti l'uno
con l'altro in qualsiasi proposizione, senza alterarne la verità o
la falsità. Ora, Giorgio IV desiderava sapere se Scott era l'autore
di "Waverley", e Scott era proprio l'autore di "Waverley". Allora si potrebbe
sostituire "Scott" a "l'autore di Waverley" e dimostrare così che
Giorgio IV desiderava sapere se Scott era Scott.
Questo paradosso, formulato esplicitamente da Russell nel 1905, fu intuito
e risolto già da Frege in Über Sinn und Bedeutung, uno
scritto del 1892 che ha avuto importanza notevole nello sviluppo della logica
contemporanea e a cui ancora si rifanno la maggior parte dei logici. Partendo
dall'analisi dell'uguaglianza, intesa non come mera tautologia, ma come processo
conoscitivo, Frege distingue due tipi di significato, l'intensione e l'estensione
(Sinn und Bedeutung). Ne risulta che l'uguaglianza non deve essere intesa
come un rapporto tra oggetti, né come un rapporto tra nomi, perché
in entrambi i casi si avrebbe una tautologia del tipo di "A = A". Infatti
dire "Scott = l'autore di Waverley" non vuol dire che l'individuo Scott sia
uguale a se stesso, né che i due nomi, "Scott" e "l'autore di Waverley",
siano identici; bensì tale proposizione è valida unicamente
per il fatto che entrambi i nomi denotano lo stesso individuo Scott in carne
e ossa, e sono sostanzialmente diversi in quanto ognuno è un modo
diverso di denotare l'individuo Scott. Dunque, i nomi hanno due tipi di
significato, quello estensionale, che è l'individuo (o in generale
l'oggetto) denotato dal nome, e quello intensionale, che è il modo
con cui l'individuo (o l'oggetto) viene denotato. Pertanto i nomi "Scott"
e "l'autore di Waverley" sono uguali nel senso che denotano lo stesso individuo
Scott in carne e ossa, ma non nel senso che hanno tutte le proprietà
in comune.
Si definisce allora "nome proprio" quel segno o complesso di segni che ha
come significato estensionale un oggetto (o individuo) determinato. I rapporti
che intercorrono tra un nome proprio, la sua intensione e la sua estensione
sono questi: a un dato nome proprio corrisponde un'intensione determinata,
e a questa una estensione determinata; invece a una data estensione non
corrisponde sempre un'unica intensione, e a una data intensione non corrisponde
sempre un unico nome proprio. Per esempio, al nome proprio "il maestro di
Platone" corrisponde un'intensione determinata, e a questa un'estensione
determinata. La prima è il modo, esclusivo di questo nome, di denotare
la seconda, cioè l'individuo Socrate in carne e ossa. Invece l'individuo
Socrate in carne e ossa può essere denotato con modi diversi (per
es., dalle intensioni dei nomi "Socrate", "il maestro di Platone", "il filosofo
ateniese che bevve la cicuta", etc.), e pertanto non gli corrisponde un'unica
intensione. Infine, all'intensione di "il maestro di Platone" non corrisponde
un unico nome proprio, perché se non altro potremmo tradurre in inglese
"il maestro di Platone" ottenendo un altro nome proprio con la stessa intensione
del primo.
Per concludere la trattazione del rapporto dei termini in una uguaglianza
è bene aggiungere che i due tipi di significato non sono esclusivi
dei nomi, ma di qualunque segno o complesso di segni di un linguaggio. Per
quanto riguarda il significato di un enunciato, l'intensione è il
"pensiero" o la proposizione che questo esprime e l'estensione è uno
dei due valori di verità, il Vero o il Falso. L'enunciato viene quindi
trattato come un nome proprio e i due valori di verità come oggetti.
Allora, concludendo, se l'uguaglianza A = B è vera, l'estensione di
"B" è identica a quella di "A", e quindi l'estensione dell'enunciato
"A = B" è identica a quella dell'enunciato "A = A". Però
l'intensione di "B" può essere diversa da quella di "A", e allora
l'intensione dell'enunciato "A = B" può essere diversa dall'intensione
dell'enunciato "A = A", e pertanto il valore conoscitivo dei due enunciati
risulterà diverso.
La posizione di Russell (On denoting e Introduction to mathematical philosophy) si differenzia notevolmente da quella di Frege. Innanzi tutto c'è in Russell una restrizione di ciò che s'intende per nome, in quanto è un nome solo quella parola che è usata per nominare un oggetto realmente esistente o esistito e, inoltre, non è, come una descrizione, composta di termini generali. La parola "Pegaso", per esempio, è solo apparentemente un nome, dal momento che non nomina nessun oggetto realmente esistente, ma è piuttosto una descrizione in quanto viene definita tramite una descrizione come "Il cavallo alato catturato da Bellerofonte", e si può intendere, anzi, come abbreviazione di questa frase denotativa. Così, raramente noi usiamo la parola "Socrate" come se fosse un nome, usandola per lo più come una descrizione dello stesso tipo di "Il maestro di Platone" o "Il filosofo ateniese che bevve la cicuta". Questa distinzione fra nomi e nomi apparenti è della massima importanza per risolvere alcuni piccoli paradossi linguistici, dovuti ad esempio a Meinong e a McColl, ma che in sostanza riguardano il pensiero metafisico tradizionale di origine ontologica. Russell continua la sua analisi affermando che una descrizione, sia essa indeterminata come "un uomo" o determinata come "l'autore di Waverley", non ha alcun significato se presa isolatamente, mentre ha significato ogni proposizione in cui essa compare, e che una proposizione in cui compare un nome è nettamente diversa da una proposizione in cui compare una descrizione o un nome apparente, anche se sembrano avere la stessa forma. "Ho incontrato Piero" non è la medesima cosa di "Ho incontrato un uomo" in quanto la prima indica una persona precisa, che è Piero, mentre la seconda è in realtà una funzione proposizionale della forma "Ho incontrato x e x è umano", e questa proposizione è talvolta vera se realmente io ho incontrato un uomo, usando "talvolta" nel senso di non implicare più di "una volta", cioè è vera se e solo se x sia la persona che io ho incontrato. Risulta evidente, quindi, che è possibile incontrare un uomo solo nel caso in cui esista almeno una x che è veramente un uomo. Per questo motivo una proposizione che afferma "Ho incontrato un unicorno" è falsa, perché "Ho incontrato x e x è unicorno" dimostra che è impossibile incontrare una x tale, cioè che questa funzione proposizionale non è mai soddisfatta da alcun valore della x. Così siamo sicuri dell'esistenza di un uomo quando diciamo "Socrate è un uomo" e usiamo "Socrate" come nome, ma non siamo sicuri dell'esistenza di un centauro dicendo "Chirone è un centauro" perché "Chirone" non è un nome, ma una descrizione. "Un unicorno", "un centauro" sono descrizioni indefinite che non denotano niente, assolutamente niente, e non oggetti irreali che diciamo appartenere al mondo della pittura o della letteratura, perché per Russell c'è un solo mondo reale di cui la pittura e la letteratura fanno parte, e in questo mondo reale non esistono unicorni e centauri, e ciò che esiste in pittura e in letteratura è una figura o una rappresentazione a parole, non un mostro favoloso in carne e ossa.
Capire il significato di una proposizione contenente una descrizione vuol
dire ridurre la proposizione a un'altra proposizione che non contenga più
la descrizione e che nello stesso tempo esprima meglio e rigorosamente ciò
che la prima proposizione significava. Una proposizione contenente una
descrizione definita si differenzia da una proposizione contenente una
descrizione indefinita in quanto l'articolo determinativo di una descrizione
definita implica unicità. Allora "l'autore di Waverley era scozzese"
significa che almeno una persona ha scritto "Waverley", che al massimo una
persona ha scritto "Waverley", che chiunque abbia scritto "Waverley", costui
era scozzese. Questo si esprime dicendo «Non è sempre falso di
x che "x ha scritto Waverley", è sempre vero di y che "se y ha scritto
Waverley, y = x" e "x era scozzese"».
Questa interpretazione delle descrizioni è senz'altro esatta e rigorosa,
e rende esplicito il vero significato delle proposizioni nelle cui espressioni
verbali compaiono descrizioni, ma ha in più un grande pregio, quello
di non impelagarsi in una delle tante possibili teorie del significato che
sono tutte forzatamente artificiali ed equivoche. Russell non si chiede a
priori quale sia il significato di una descrizione, ma lo scopre nell'analizzare
la proposizione in cui essa compare, e non pone un limite al significato,
come invece fa Frege nel distinguere un'intensione e un'estensione.
La teoria di Frege incontra subito una grossa difficoltà appena s'imbatte
in una descrizione come "l'attuale Re di Francia" la cui estensione, o
denotazione, è manifestamente assente. Frege direbbe che ci sono
descrizioni che non denotano nulla o, per dirla con la sua terminologia,
che denotano la classe nulla, cioè lo zero. Ma questo è un
brutto artificio che risulta soggetto a banalissime critiche intorno al concetto
di classe nulla, la quale rischia di diventare un oggetto irreale come gli
oggetti irreali di Meinong. Inoltre che dire di una proposizione come "l'attuale
Re di Francia è calvo" che contiene una descrizione che non denota
nulla e che ha la stessa forma della proposizione "l'attuale Re d'Inghilterra
è calvo" dove la proposizione verte sulla denotazione di "l'attuale
Re d'Inghilterra" che è una persona in carne e ossa? Risulterebbe
un'asserzione intorno a un qualcosa che non c'è, e diverrebbe un nonsenso.
Invece, poiché "l'attuale Re di Francia è calvo" significa
"x è Re di Francia ora e x è calvo" è talvolta vero
di x, la proposizione risulta falsa perché non è mai vero di
x, e quindi non è senza senso. Ne risulta che bisogna abbandonare
l'opinione che le proposizioni contenenti descrizioni implichino il riferimento
a una denotazione. Inoltre senza questa considerazione non può aver
senso fare, a proposito di una descrizione, la distinzione fra significato
e denotazione (intensione ed estensione), perché tutte le volte che
una descrizione compare in una proposizione, questa verte sulla denotazione
della descrizione e non sulla descrizione stessa. Analogamente se costruiamo
una proposizione che abbia per soggetto "il significato di C" o "la denotazione
di C", dove C è una descrizione qualsiasi, il soggetto è il
significato (se esiste) della denotazione o, rispettivamente, la denotazione
(se esiste) della denotazione. Così se "C = il primo verso dell'Infinito
di Leopardi", il significato di C risulta essere il significato di "Sempre
caro mi fu quest'ermo colle" e la denotazione di C risulta essere la denotazione
di "Sempre caro mi fu quest'ermo colle".
Per poter parlare, invece, del significato o della denotazione della descrizione
in questione C, dobbiamo parlare del significato di K o della denotazione
di K, dove K è un qualcosa che denota C; oppure, come viene fatto
comunemente, possiamo mettere la descrizione C tra virgolette e parlare del
significato di "C" e della denotazione di "C", senza però confondere
"C" con C, cioè senza confondere un qualcosa che denota la descrizione
con la descrizione stessa. Per cui, parlando di "C", parliamo della descrizione
e, parlando della descrizione, parliamo della sua denotazione.
Cosa sia "C" non sappiamo bene dirlo; di certo non è la denotazione
e non è la descrizione stessa; infatti se fosse la descrizione denoterebbe
la denotazione, mentre invece, parlando di "C" (cioè ogni volta che
"C" compare in una proposizione) non intendiamo la denotazione, ma la
descrizione. Piuttosto è la denotazione di "C" che denota la denotazione.
Del resto, e questo detto una volta per tutte, una descrizione denota di
per sé, senza aggiungerle davanti "la denotazione di".
"C" sembrerebbe allora un significato; ma, se così, dovremmo dire
che è il significato, e non la descrizione, ad avere un significato
e una denotazione; e poi risulterebbe «il significato di "C"» uguale
a "C" solo. D'altronde, e questo è il nocciolo della discussione,
la relazione tra "C" e C risulta del tutto misteriosa e non si può
quindi accettare che sia "C" a denotare C. Tutto questo non genera altro
che confusione ed è, come dice Russell, un garbuglio inestricabile
che non può farci accettare la teoria, apparentemente semplice, da
cui deriva.
L'importanza filosofica della teoria delle descrizioni di Russell è
davvero grande. Innanzi tutto essa supera brillantemente tutti i paradossi
che si conoscono a proposito delle descrizioni, a cominciare da quello sulla
curiosità di Giorgio IV esposto all'inizio. Per Russell "Scott" e
"l'autore di Waverley" non sono affatto sinonimi, perché "l'autore
di Waverley" non è un nome, e la proposizione "Scott era l'autore
di Waverley" significa «non è sempre falso di x che "x ha scritto
Waverley", è sempre vero di y che "se y ha scritto Waverley, y = x"
e che "Scott era x"».
Un altro paradosso sembra minare il principio logico del "terzo escluso"
da cui sappiamo che o "A è B" o "A non è B", e che quindi o
"l'attuale Re di Francia è calvo" o "l'attuale Re di Francia non è
calvo". Abbiamo già visto come "l'attuale Re di Francia è calvo"
sia falsa, ora esaminiamo la proposizione "l'attuale Re di Francia non è
calvo". Questa proposizione è ambigua, in quanto è falsa se
s'intende come «non è sempre falso di x che "x è Re di
Francia ora e x non è calvo"», ed è vera se s'intende
come «è sempre falso di x (non è non è sempre falso)
che "x è Re di Francia ora e x è calvo"», e pertanto il
principio del "terzo escluso" rimane estraneo.
Ma l'importanza filosofica principale consiste nel fatto che la teoria delle
descrizioni di Russell fa nuova luce su un certo tipo di ragionamento ontologico
tradizionale. Si pensi alla prova ontologica dell'esistenza di Dio. Questa
prova si basa su una proposizione intorno alla descrizione "l'Essere
perfettissimo" che, secondo quanti non hanno familiarità con l'analisi
logica del linguaggio, viene considerata come un nome. La prova è
questa: "L'Essere perfettissimo ha tutte le perfezioni, l'esistenza è
una perfezione, perciò l'Essere perfettissimo esiste". Bene, ma la
proposizione "l'Essere perfettissimo ha tutte le perfezioni" significa «non
è sempre falso di x che "x è perfettissimo e x ha tutte le
perfezioni" ed è sempre vero di y che "se y è perfettissimo,
y = x"», e quindi rimane da provare l'esistenza di quella x.
In termini più semplici, e altrettanto validi, la prova ontologica
dell'esistenza di Dio può essere così formulata: "C'è
una e soltanto una x che è perfettissima, questa entità ha
tutte le perfezioni, l'esistenza è una perfezione, pertanto questa
entità esiste". La dimostrazione non è valida perché
manca la prova della permessa "C'è una e soltanto una entità
x che è perfettissima".
Analogamente qualche parroco sprovveduto potrebbe dire che di Dio non se
ne può parlare se non se ne suppone l'esistenza, perché per
dire che non esiste bisogna nominarlo. Questo è un discorso che si
sente fare molto spesso e che ancora una volta si basa sul fatto di considerare
la parola "Dio" come un nome, mentre in realtà è una descrizione
che sta per esempio come abbreviazione di "Il Creatore dell'Universo". Allora
"Dio esiste" significa «non è sempre falso di x che "x ha creato
l'Universo e x esiste" ed è sempre vero di y che "se y ha creato
l'Universo, y = x"», dove bisogna dimostrare l'esistenza di tale x.
Così è lecito chiedersi se Omero sia esistito o no, perché
"Omero" sta, per esempio, per "l'autore dell'Iliade e dell'Odissea", mentre
non sarebbe lecito se "Omero" fosse un nome.
W.C. Salmon nel suo libro Logic afferma che il significato di un termine
del linguaggio ha, nella maggior parte dei casi, due aspetti. Uno è
l'estensione, che Salmon definisce come la classe di tutti gli oggetti a
cui il termine si applica correttamente. L'altro è l'intensione, che
è definita come l'insieme delle proprietà che un oggetto deve
avere per essere qualificato come l'estensione di quel termine. Questa
definizione del significato di un termine del linguaggio si rifà,
in sostanza, a quella di Frege, ma ne è una copia ancora più
brutta. Infatti, secondo la definizione data da Salmon, l'intensione e
l'estensione di un termine vengono a coincidere. Per dimostrare questo facciamo
un esempio: Si consideri l'estensione del termine "Socrate", che indicherò
con E(Socrate). Questa è la classe formata da un solo membro, che
è l'individuo Socrate in carne e ossa. Risulta allora che l'intensione
del termine "Socrate", che indicherò con I(Socrate), è l'insieme
delle proprietà che E(Socrate) deve avere per essere qualificato come
l'estensione di "Socrate". Consideriamo ora il termine "il maestro di Platone".
L'estensione di "il maestro di Platone" è ancora l'individuo Socrate
in carne e ossa; perciò E(il maestro di Platone) = E(Socrate).
L'intensione di "il maestro di Platone" è l'insieme delle proprietà
che E(il maestro di Platone) deve avere per essere qualificato come l'estensione
di "il maestro di Platone". Dunque è chiaro, avendo "Socrate" e "il
maestro di Platone" la stessa estensione, che I(il maestro di Platone) =
I(Socrate).
Secondo la teoria di Salmon, allora, è vero che ogni termine ha
un'estensione e un'intensione, ma è anche vero che tutti i termini
che hanno la medesima estensione hanno anche la medesima intensione. Ne viene,
dunque, che "il maestro di Platone" e "Socrate" hanno lo stesso significato,
sia intensionale che estensionale; sono cioè la stessa cosa. Ma questo
è falso, perché quando si dice "Il maestro di Platone = Socrate"
non si dice una banalità del tipo "Socrate = Socrate". I due termini
hanno intensioni diverse e, quindi, significato diverso, pur avendo la stessa
estensione. Per Salmon, invece, la differenza è solo formale e non
logica; onde, immagino, un termine come "Pegaso", che non ha estensione,
è solo una forma linguistica senza alcun contenuto significativo.
Inoltre questa teoria non è neppure in grado di risolvere il paradosso
intorno alla curiosità di Giorgio IV, il quale risulterebbe interessarsi
davvero al principio d'identità.
In questa via confusa alla ricerca del significato dei termini del linguaggio,
sulle orme di Frege, mi pare si perdano anche alcuni logici italiani
contemporanei. Corrado Mangione, in Elementi di logica matematica,
pag. 31, chiama "concetto individuale" l'intensione di un soggetto e "individuo"
la sua estensione. La definizione data è questa: «L'estensione
di un soggetto è l'individuo da esso denotato. Ad esempio, come estensione
di "Socrate" intendiamo l'individuo Socrate in carne e ossa; a questa estensione
corrispondono più intensioni, ad esempio, "il maestro di Platone"
oppure "il filosofo greco che bevve la cicuta" o ancora "il filosofo ateniese
marito di Santippe", ecc., ognuna delle quali rappresenta un modo di denotare
l'individuo Socrate. In ognuna di queste intensioni ravvisiamo appunto un
contenuto intersoggettivo (difficilmente definibile in termini espliciti)
che ci permette cioè di "intenderci"; è in questo modo che
consiste quel concetto individuale inteso quale intensione di un
soggetto».
A quanto pare questo "concetto individuale" noi lo astraiamo da tutti i nomi
e da tutte le descrizioni che denotano l'individuo Socrate. Ne segue che
anche in questa teoria, come già in quella di Salmon, il significato
di un termine dipende dalla sua estensione, cioè che tutti i termini
che hanno la stessa estensione hanno lo stesso "concetto individuale" e,
quindi, la stessa intensione. La critica che si può fare alla teorie
di Mangione è pertanto identica a quella fatta per la teoria di Salmon.
Se non altro, però, nel caso di Mangione il "soggetto" di cui parla
sembra essere un nome nel senso di Russell e non una descrizione. Ma ciò
genera ugualmente confusione perché le descrizioni fra virgolette,
come "il maestro di Platone", sono le intensioni che corrispondono all'estensione
del soggetto, e pertanto sono le intensioni del soggetto (perché da
queste si astrae il "concetto individuale"), cioè una sola o tutte
quante queste descrizioni fra virgolette danno l'intensione del soggetto.
Ma una descrizione tra virgolette è anche l'intensione della descrizione
contenuta nelle virgolette, onde ad esempio viene a coincidere l'intensione
di "Socrate" con quella di "il maestro di Platone", riportandoci al caso
di Salmon.
Frege non incorre nei banali errori di Salmon e di Mangione perché
per lui l'intensione è caratteristica di un nome o di una descrizione
indipendentemente dalla denotazione di questi, e pertanto la critica corretta
alla teoria di Frege rimane quella fatta da Russell in On
Denoting.
Rimangono, comunque, delle difficoltà quando l'estensione di un nome
o di una descrizione è la classe vuota (o lo zero), perché,
in base alla definizione di uguaglianza data all'inizio di Über Sinn
und Bedeutung, risulta che "L'attuale Re di Francia è uguale al
cavallo alato catturato da Bellerofonte" nel senso che denotano la stessa
0 (zero, classe vuota) e che, quindi, il nome dell'attuale Re di Francia
è "Pegaso", cosa piuttosto discutibile.
I due aspetti del significato hanno avuto in italiano varie traduzioni:
Frege (Senso, Significato)
Russell (Significato, Denotazione)
Leibniz (Intensione, Estensione)
Stuart Mill (Connotazione, Denotazione)
Logica di Portoreale (Comprensione, Estensione)
BIBLIOGRAFIA
Gottlob Frege, Über Sinn und Bedeutung.
Bertrand Russell, On Denoting.
Bertrand Russell, Introduction to Mathematical Philosophy.
Fine
© Copyright 1973-1997 by Enrico Barsanti
Prima edizione su Internet: 13 agosto 1997